BREVI CENNI STORICI SULLA BANDA PARTIGIANA “PAOLINI” OPERANTE NELLE MARCHE

 Nel settantesimo anniversario della fucilazione del suo capo, il Sottotenente della Guardia di Finanza Gianmaria Paolini

 (1944 – 2014)

 

  1. 1.          Premessa.

 

La storia della Resistenza in Italia ci ricorda che il 1944 rappresentò certamente l’anno più duro ed impegnativo per le varie organizzazioni partigiane operanti nel Centro-Nord del Paese. La durissima rappresaglia e la “caccia all’uomo”, portate avanti dalle truppe d’occupazione tedesche, così come dalle milizie repubblichine e dagli sgherri fascisti, in generale, determinarono l’annientamento o la frammentazione di molte formazioni; la deportazione nei lager tedeschi di migliaia di persone; la fucilazione o comunque la morte di centinaia e centinaia di capi e di valorosi partigiani.

A questo scempio di carni, a questa illogica reazione contro la naturale idea di libertà non furono risparmiate le Marche, la gloriosa regione dell’Italia Centrale che alla Resistenza – lo ricordiamo tutti – ha offerto un elevato contributo di sangue, di valore, di altruismo. Come ricordò lo storico della Guardia di Finanza, Generale Giuliano Oliva, in un suo celebre ma poco conosciuto testo dedicato alla Resistenza vista dai finanzieri[1], nelle Marche l’attivismo partigiano era sorto immediatamente dopo il fatidico armistizio dell’8 settembre 1943, raggiungendo in breve una buona consisten­za. Esso comprendeva, grosso modo, circa una sessantina di gruppi, divisi in formazioni e bande, per la maggior parte autonomi tra di loro, chiamati ad operare in una zona molto vasta e massicciamente occupata dai nazi-fascisti, soprattutto per motivi bellici, come si ricorderà, pensando alla lenta avanzata degli anglo-americani. I patrioti marchigiani passarono immediatamente all’azione, rendendosi protagonisti di memorabili imprese ai danni del nemico. Il 19 gennaio 1944, ad esempio, la Brigata “Garibaldi” di Pesaro fece saltare i trasformatori della centrale elettrica del Belliso, mentre il 5 febbraio riesce, con successo, ad assaltare la stazione ferroviaria di Albacina, liberando 700 “reclute forzate” destinate all’Esercito della Repubblica di Salò.

Nello stesso mese, i tedeschi vengono attaccati a San Ginesio e Meccia ed in altre località minori. Altre brillanti azioni patriottiche vengono messe a segno dalla Brigata partigiana  “Spartaco”, la quale, come ci ricorda il Generale Oliva, era composta da numerosi finanzieri, molti dei quali datisi alla macchia immediatamente dopo l’armistizio, pur di non servire sotto il giogo nazi-fascista. Nell’ascolano, in particolare, una formazione partigiana co­mandata da un ufficiale della Guardia di Finanza, il Sotto Sottotenente Gianmaria Paolini, si farà presto notare sia per il coraggio ed il valore delle proprie imprese, sia per la determinazione nel lottare il nemico. Come avremo modo di ricordare appresso, dopo l’armistizio, il Sottotenente Paolini, già comandante della Tenenza di Stretto, in Dalmazia, eludendo la vigilanza dei tedeschi, a bordo di due motobarche ex jugoslave raggiunse le coste marchigiane, con circa una diecina di finanzieri e parecchie armi da destinare alla lotta armata. A San Benedetto del Tronto, Paolini si mise immediatamente in contatto con i partigiani locali, tanto che già il 16 settembre ‘43, presso la locale caserma della Guardia di Finanza costituì la Banda partigiana che ben presto porterà il suo nome, anche se solo per distinguerla da altre formazioni, non certo per vanità: è bene ricordarlo !

A questo manipolo di eroi dedichiamo il presente saggio, frutto di una ricerca presso gli archivi storici del Museo Storico del Corpo, ricorrendo quest’anno il 70° anniversario dell’esecuzione del giovane Gianmaria Paolini, figura di Eroe mai dimenticato dalle Fiamme Gialle e dalla Patria, per quanto oggi quasi sconosciuto ai più[2].

 

  1. 2.          Ma chi era Gianmaria Paolini ?

 

Gianmaria Paolini nacque a Torino il 17 gennaio 1919, figlio di Vittorio, Dottore in medicina, membro di una benestante famiglia originaria di Garessio (Cuneo), famiglia che aveva dato all’Italia vari letterati e uomini di Chiesa, e di Paola Balbo, originaria anche Lei di Garessio, ove la famiglia viveva in Borgo San Francesco. Attratto dalla cultura sin dalla giovanissima età, Gianmaria compì con esito favorevole gli studi superiori, conseguendo la maturità classica nel corso del 1939. Dal suo stato di servizio apprendiamo anche che il ragazzo conosceva bene la lingua inglese, elemento questo non certo comune ai suoi coetanei e che probabilmente gli servirà in futuro, quando il Paolini, abbracciando, come vedremo, la vita partigiana entrerà in contatto con alcuni ufficiali alleati. Dopo essersi iscritto al primo anno di Giurisprudenza, il 27 novembre 1940, il giovane fu ammesso, quale allievo ufficiale, presso l’Accademia della Regia Guardia di Finanza, allora ospitata presso la Caserma “Vittorio Emanuele III” di Roma, Viale XXI Aprile, frequentatore del Corso “Val d’Astico”.

La scelta della vita militare non fu del tutto casuale, anche perché nella famiglia Paolini, di militari e di ufficiali c’è ne erano stati anche in precedenza, e qualcuno si era pure distinto con grande onore e prestigio, come nel caso dello zio Federico, fratello del babbo, decorato di Medaglia d’Oro al Valor Militare per aver, da Capitano di Vascello, contribuito all’eroica difesa della legazione italiana a Pechino, durante la rivoluzione del Boxers, nel 1900[3]. Il corso biennale di formazione fu impegnativo, ma per uno studente universitario al passo con gli esami non fu gravoso tanto di più.

Il Paolini fu così promosso Sotto Tenente il 1° settembre del 1942, pur rimanendo in Accademia onde completare il c.d. “Corso d’Applicazione”, ultimo passo prima della destinazione. Di lì a qualche mese, desideroso di combattere come gran parte dei giovani ufficiale d’allora, ancorché laureando in Giurisprudenza, il neo ufficiale vergò di proprio pugno la domanda di mobilitazione, indirizzata al Comando Generale del Corpo in data 17 novembre 1942, con la quale chiedeva apertamente di essere destinato, al termine del corso d’Applicazione, presso un Battaglione Mobilitato[4]. L’istanza fu ovviamente accolta, tant’è vero che in data 1° dicembre ’42, il giovane raggiunse Trieste, Centro di mobilitazione dell’XI Battaglione mobilitato, operante nei Balcani.

Qualche tempo dopo, in seguito alla morte in combattimento del Tenente Leone Benvenuti, il Sotto Tenente Paolini viene, infine, destinato al comando della Tenenza di Stretto, ove rimarrà sino all’armistizio dell’8 settembre 1943.

 

  1. 3.          La Banda “Paolini”, operante nelle Marche.

 

Dopo la resa italiana, con la comparsa sulla scena delle prime Bande partigiane jugoslave, il Sottotenente Paolini decise di schierarsi con queste, attendendo però il momento favorevole per rientrare in Patria. Ciò, in realtà, avverrà di lì a poco, allorquando, dopo aver raccolto il maggior quantitativo possibile di armi ed esplosivi, lasciò Sebenico, attraversando con altri Finanzieri e Soldati italiani l’Adriatico a bordo di una motovedetta della stessa Guardia di Finanza, comandata dal Sotto Brigadiere del contingente di mare Mario Mosconi, e di alcuni pescherecci.

Qualche giorno dopo, durante la notte dell’11 settembre, il piccolo convoglio di italiani sbarcò a San Benedetto del Tronto, nelle Marche. Molto probabilmente, secondo alcune fonti, ivi compreso l’Oliva, il Paolini non arrivò, come tanti altri soldati italiani, a San Benedetto per caso, ma scelse volutamente quell’approdo, avendo la certezza di poter incrociare di lì a poco nelle Marche l’8^ Armata inglese, alla quale evidentemente unirsi per poter risalire con essa la penisola sino al suo Piemonte. In realtà, il rallentamento dell’avanzata degli alleati verso Nord cambiò i suoi piani, inducendolo a prendere con­tatti con alcuni esponenti del locale Comitato di Liberazione Nazionale, potendo così organizzare legittimamente sul posto una prima forma di guerriglia, operando attivamente anche nella zona dell’Ascensione, così come in altre località dei Comuni di Montalto e di Rotella.

Nei giorni immediatamente successivi alla costituzione della Banda, il Sottotenente Paolini si renderà protagonista del salvataggio della flottiglia dei moto-pescherecci di San Benedetto, sui cui gravava il pericolo tedesco, la quale, alla guida del Guardiamarina Nebbia, riuscì a raggiungere indenne il Sud Italia, già liberato. Contemporaneamente riuscì a fare non pochi proseliti, attirando alla nuova formazione partigiana molti suoi colleghi finanzieri, numerosi altri militari, così come civili ed ex prigionieri alleati. Lo aiuteranno nell’organizzazione dell’unità uomini altrettanto valorosi, Fiamme Gialle di rare virtù come l’Aiutante di Battaglia del contingente di mare Pietro Iovine, il Brigadiere Tito Speca, l’indomito Finanziere di mare Antonio Magro, tutti aggregati, su richiesta dello stesso Paolini, alla Brigata di Finanza di San Benedetto, onde evitare i naturali sospetti da parte dei nazi-fascisti. L’azione resistenziale che farà conoscere in zona la pericolosità della Banda “Paolini”, e che fra l’altro giustificherà la concessione dell’unica ricompensa conferita all’eroe piemontese, si concretizzò il 15 settembre del ’43, all’interno della stazione ferroviaria di San Benedetto, ove si trovava in sosta un treno carico di tedeschi.

PaoliniA ricostruirla furono l’Aiutante di Battaglia delle Fiamme Gialle Pietro Iovine ed il Finanziere Antonio Magro, ai quali lasciamo la parola, sicuri di fare piena luce su di un episodio per il quale alcuni storici locali hanno leggermente abbondato in fantasia, per quanto in buona fede, attribuendo proprio a quell’episodio la volontà del Paolini di seguire la via della Resistenza. “Mentre si lavorava per l’inquadramento dei giovani e per la loro sistemazione presso i contadini della frazione Ponte Rotto di San Benedetto – ricorda Pietro Iovine -  accadde il primo avvenimento degno di nota. Il sotto tenente Paolini con altri partigiani era intento a scaricare una mitragliatrice da un noto peschereccio, quando sentendo degli scoppi di bombe a mano in direzione della stazione, si diresse verso la stazione stessa e domandò che cosa stava accadendo. Seppe che un macchinista di treno, per allontanare i bambini che giocavano in mezzo alle rotaie, aveva tirato loro due bombe a mano a distanza in modo da spaventarli soltanto, ma per disgrazia una scheggia ferì ad un occhio un bambino in modo non grave. L’episodio sarebbe finito senza altre complicazioni, se una popolana non avesse incominciato ad inveire contro i tedeschi che erano in stazione, appoggiata dall’indignazione di tutti i presenti. Fu allora che il Paolini con sei o sette patrioti di recò nella caserma di Finanza dove già si trovavano numerose casse di bombe a mano e, con l’Aiutante di Battaglia Iovine, le distribuì agli uomini volenterosi di rispondere con atti di forza ad atti di forza. Tornati alla stazione, mentre gli uomini guidati dall’Aiutante di Battaglia Iovine turarono una settantina di bombe a mano contro il treno, il S. Ten. Paolini sparò ad un tedesco che fu mortalmente ferito e approfittando della confusione generale, si dileguò e raggiunse la località di Ponte Rotto, dove rimase finché cessarono le ricerche. Lo stesso dovette fare l’Aiutante Iovine con la famiglia e gli uomini del proprio reparto”[5].

Nei giorni seguenti, resosi con­to che lungo la costa sanbenedettese sarebbe stato impossibile, soprattutto a causa dell’intensificarsi delle ricerche e dei rastrellamenti da parte dei tedeschi, condurre una efficace lotta armata, il Paolini, ottenuta l’adesione di molti altri patrioti sanbenedettesi si diede definitivamente alla macchia con i suoi finanzieri, preferendo portare l’azione principalmente verso l’interno del territorio marchigiano, dislocan­do inizialmente la Banda tra Acquaviva e Ripatransone, ma anche nel fondovalle del Tesino. In questo periodo, così come documentato da Iovine e Magro: “…fu di grande aiuto al Movimento patriottico il S. Ten. dei CC. RR. Carlo Dalla Chiesa che mise i bastoni tra le ruote ai poliziotti tedeschi”[6]. E’, questa, una notizia inedita nell’ambito delle vicende legate al Paolini, che con grande onore riportiamo in questo saggio, volendo offrire il giusto risalto a quel grande Carabiniere che tutti gli italiani ricordano con affetto e gratitudine, e che siamo certi avrà conosciuto ed apprezzato in vita il nostro personaggio principale[7].

Torniamo alla narrazione dei fatti.  Man mano che la Banda “Paolini” s’andava ingrandendo in strutture di comando ed organici, importanti “capisaldi avanzati” furono organizzati lungo tutto il crinale che divideva il Tesino dalla Valle del Tronto. Pur tuttavia – nel frattempo – la costa non fu abbandonata a sé stessa, anche perché alla foce del Tronto dovette essere spo­stato il luogo di partenza dei motopescherecci diretti a sud (già in mano agli Alleati) e che, ovviamen­te, non poteva più mantenere il “capolinea” nella zona del porto di San Benedetto, dalla quale – lo ricordiamo a noi stessi – dal me­se di settembre fino a metà ottobre del ’43 moltissimi ex prigionieri anglo-americani avevano potuto raggiungere Termoli, per l’appunto a bordo di barche da pesca.

Lo storico Oliva ci ricorda che gli anglo-americani venivano rac­colti in una casa nei pressi del c.d. “Ponte Lungo”, vicino al campo sportivo, per poi, ovviamente di notte, guadagnare a gruppi le vicine banchine portuali, dalle quali imbarcarsi verso Sud. Quando i tedeschi se ne resero conto, la Banda “Paolini” fu costretta a dirottare tale attività ver­so la citata foce del Tronto, ponendone a capo il prode Finanziere Antonio Magro, con il quale rimarrà in contatto grazie al posto radio voluto dal Colonnello Styvel a Castel di Croce. Nei mesi seguenti, con l’intensificarsi dei rastrellamenti nazi-fascisti nella zona, dopo aver assicurato la fuga di molti pescherecci, sia l’avamposto del Finanziere Magro che l’intera Banda “Paolini” si dovette trasferire a Ponte Rotto, località dalla quale, anche grazie all’inserimento tra le sue fila di due ufficiali inglesi, diede inizio alle sue prime azioni di guerra, nel corso delle quali si coprirà di gloria.

Sarà la stessa popolazione marchigiana a dar manforte alla formazione partigiana capeggiata dall’ufficiale di Finanza, grata anche per ciò che i patrioti del Paolini avevano dimostrato a Monteparo, a Forca, a San Vittorio e a Monteleone, ove, dopo aver aperto a forza i silos dell’ammasso, distribuirono il grano alla gente affamata, ma anche per i soccorsi prestati alla popolazione in occasione dei numerosi bombardamenti. Il valore e la determinazione della Banda destò ben presto l’attenzione del truce fascista Giuseppe Roscioli, il quale, con i suoi sgherri ed informatori si mise a caccia di quei partigiani, inseguendoli per tutte le Marche. Una forte taglia viene posta sulla sua testa del suo capo, divenuto così il classico “pericolo pubblico numero uno”. La formazione si dovette così spostare da Ponte Rotto ad Acquaviva e da qui a Rovetino, località rivelatasi più sicura grazie all’ambiente roccioso e alla ricchezza di boschi.

Vari, tuttavia, furono gli scontri sostenuti dai patrioti della “Paolini” contro i fascisti, tutti analiticamente ricordati dallo Iovine e dal Magro. Ponte Rotto, Sanili, Acquaviva, Monte Rinaldo, Forca e Ro­tella – come ricorda anche il Generale Oliva – sono le località nelle quali la Banda risolse a suo favore gli scontri con gli avversari, riuscendo persino a piombare in caso dello stesso Roscioli, nel corso di una memorabile impresa che porta la data del 17 febbraio[8]. L’efficienza della Banda era sostanzialmente dovuta all’alta percentuale di militari o ex militari che vi militavano. La sua struttura, per scelta dello stesso Sottotenente Paolini, era ispirata a rigidi criteri militari, tanto che gli uomini che ne facevano parte erano sottoposti ad una concreta forma di disciplina, mentre compiti e respon­sabilità venivano ripartiti nel corso di riunioni tattico-operative. Fu anche per tale impostazione che la “Paolini”, in più occasioni, fu in grado di opporsi con decisione ai rastrellamenti, infliggendo perdite notevoli sia alle truppe tedesche che agli odiati fascisti. Affratellata in animo ed azioni con l’intero apparto resistenziale marchigiano, la Banda “Paolini” corse spesso in aiuto di altre organizzazioni sorelle, come nel caso in cui ebbe modo di fornire consistenti aiuti in armi e mezzi alla formazione partigiana che operava a Colle San Marco al comando di un ufficiale dell’Esercito.

Alla celebrità delle azioni patriottiche ad essa ascritte fece eco un infoltimento delle sue fila, tant’è che verso la fine del mese di febbraio del 1944, la “Paolini” decise di dividersi in due gruppi. Il primo, quello più consistente, che avrebbe operato in tutta la zona, rimase sotto il comando dello stesso Sottotenente Paolini, mentre il secondo fu lasciato in riserva a Rovetino. Ma il destino della formazione partigiana era ormai segnato. Anche se i vari scontri con i nazi-fascisti impegnarono decisamente la formazione, il morale dei suoi uomini non ne rimarrà intaccato. Anzi ! Nella prima decade del mese di marzo 1944, nel mentre i due gruppi della “Paolini” si trovavano ad operare a Rovetino e a Castel di Croce, i tedeschi diedero vita ad una gros­sa offensiva contro le formazioni partigiane operanti nelle Marche ed in Um­bria: offensiva che vide impiegate due Divisioni motorizzate; autoblinde e artiglieria pe­sante, ma soprattutto centinaia di uomini, truppe appositamente distratte dal fronte, reparti di SS e truppe dell’Esercito repubblichino. La Banda “Paolini”, com’è facile intuire, fu tra le prime organizzazioni patriottiche che la subirono. L’offensiva durerà circa un mese, concludendosi con fortissime perdite subite dai partigiani operanti nell’Appennino Umbro-Marchigiano. Secondo alcune fonti: oltre trecento morti tra patrioti e civili, per non parlare dei tanti catturati in vita, probabilmente deportati nei lager. Anche la nostra “Paolini” dovette cedere alla notevole sperequazione di forze. Attaccata a Rovetino e a Castel di Croce, subì anch’essa perdite cospicue. Molti dei suoi uomini caddero valorosamente, come Gino Capriotti, abbattuto sulla sua mitragliatrice; Antonio Tauro, Gaetano Mazzocchi, Giulio Danesi e tanti altri patrioti di pura fede. Fra i tanti caduti in mano nemica vi fu anche l’Aiutante di Battaglia Iovine, che nel frattempo combatteva con un altro gruppo nella zona di Monticelli di Monteprandone, acciuffato il 16 marzo.

A quel punto, la si­tuazione precipitò inesorabilmente. I nazi-fascisti riuscirono persino ad individuare la riserva di armi ed i rifugi dei patrioti. La Banda “Paolini” si poteva ritenere ormai annientata, cessando virtualmente di esistere, come evidenzia il Generale Oliva. I suoi superstiti, per niente  fiaccati dal nemico, passarono così a far parte di altre formazio­ni patriottiche operanti nella medesima area. Nei giorni seguenti, tuttavia, per ordine del Comando Partigiano di zona, su consiglio del Comandante del Raggruppamento “Gran Sasso”, Maggiore Italo Postiglione, il Sottotenente Gianmaria Paolini fu inviato in missione al Nord, unitamente ad altri cinque patrioti, fra i quali il Sotto Tenente degli Alpini Settimio Berton ed il cannoniere sanbenedettese Francesco Fiscoletti, coetanei del nostro protagonista, i quali seguiranno il Paolini, dopo che il gruppo si era diviso a Macerata, onde percorrere strade diverse per far sì che almeno uno di loro raggiungesse la meta. Loro prima tappa sarebbe stata Firenze ed in seguito Torino. Dopo una durissima marcia a piedi, toccando le località di Ripatransone, Montegiorgio, Urbisaglia e San Severino, i tre eroi si impadronirono di una vecchia autovettura proprio a San Severino: autovettura a bordo della quale raggiunsero Foligno e poi Perugia. Tale scelta si dimostrerà fatale. Il 22 marzo 1944, mentre i tre percorrevano in macchina la zona di Lora Ciuffenna, in provincia di Arezzo, verranno fermati e catturati dalla Guardia Nazionale Re­pubblicana di San Giustino[9], dietro ordine d’arresto firmato dal Prefetto aretino Bruno Rao Torres. Trasferiti inizialmente nelle carceri Mandamentali di Montevarchi, i patrioti furono successivamente tradotti (era il 19 aprile) in quelle di San Giovanni Valdarno, ove appresero di essere stati condannati a morte, naturalmente senza subire alcun processo.

Vani si dimostreranno i tentativi di salvarlo, compiuti dai superiori direttamente presso il Questore di Arezzo e dallo stesso padre del Paolini (che riuscì anche a riabbracciare il figlio il 28 di marzo, in una breve visita a Montevarchi), presso il Questore di Cuneo, come documentano gli archivi del Corpo. Pur tuttavia, la famiglia Paolini vivrà il dramma di Gianmaria con grande compostezza, peraltro avendo “sotto le armi” della Repubblica fascista altri due figli, bersaglieri presso la 3^ Compagnia di Monterosso, in provincia di Spezia. Ormai la vendetta stava per compiersi. I tre valorosi partigiani, dopo essersi salvati per l’opposizione popolare che ne impedì l’esecuzione nella pubblica piazza, il mattino del 24 aprile, verranno, infatti, fucilati da un Plotone della Polizia Ausiliaria, al comando del Sottotenente Renato Tartarotti, lo stesso giorno in località Santa Lucia, a San Giovanni Valdarno, una zona boscosa lontana da occhi indiscreti. La documentazione conservata presso il citato Museo Storico del Corpo ci conferma che due giorni prima di morire, Gianmaria Paolini chiese di parlare con il co­mandante della Brigata della Guardia di Finanza di San Giovanni Valdarno, il Maresciallo capo Salvatore Sale, al quale volle confidare, oltre al credo antifascista, la propria attività partigiana e l'incarico avuto dal Comando dei patrioti delle Marche[10]. Nel fatidico momento della fucilazione – erano le 10 di mattina di una stupenda giornata di aprile - l’ufficiale delle Fiamme Gialle apparve sereno, sia nell’animo che nella forma esteriore, trovando anche il coraggio di gridare “Viva l'Italia”, prima che i carnefici gli esplodessero contro i colpi delle loro armi. F

u, questa, la testimonianza più toccante che Don Aldo Forzoni, cappellano di San Lorenzo, ma soprattutto del frate francescano Teodosio Cardini e di Mons. Cesare Vannucci, testimoni oculari dell’esecuzione sommaria, racconteranno ai posteri, primi fra tutti all’anziano padre e alla fidanzata del Paolini[11]. Inizialmente sepolti presso il locale cimitero, i tre patrioti marchigiani, per iniziativa della locale Sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, furono riesumati la mattina 24 aprile del 1946, per poi raggiungere finalmente i paesi d’origine delle vittime. Il giorno seguente, i resti mortali di Gianmaria Paolini partirono alla volta di Garessio, in Piemonte, ove sono tuttora sono venerati nella cappella di famiglia, lì tumulati il 28 seguente nel corso di una solenne cerimonia. Per fortuna, i due responsabili dell’eccidio di San Giovanni – ci piace ricordarlo in questa sede – non sfuggirono alla giustizia degli uomini.

Mentre l’ex Prefetto Rao Torres fu condannato, nell’ottobre del 1947, a 30 anni di reclusione, da parte della Corte Speciale d’Assise de L’Aquila, il Tartarotti, nel frattempo promosso Capitano delle famigerate “Brigate Nere”, verrà, invece, fucilato a Bologna, ove era stato catturato subito dopo la Liberazione. In ogni caso, Gian Maria Paolini non fu dimenticato dal suo Paese. Già nel marzo del 1945 (ricordiamo ai più giovani che Roma era già stata liberata nel giugno del ’44), la Direzione Generale del Movimento Partigiano richiese al Comando Generale della Guardia di Finanza tutta la documentazione possibile sul Paolini, onde proporlo eventualmente per una ricompensa al Valor Militare[12].

Analoga iniziativa fu intrapresa dal Comandante del Raggruppamento partigiano “Gran Sasso”, Italo Petroni, che propose l’ufficiale delle Fiamme Gialle per la Medaglia d’Argento al Valor Militare[13], mentre la Commissione Regionale Marchigiana per il riconoscimento della qualifica di partigiano lo propose per quella d’Oro. A tali iniziative fece seguito, nel marzo 1946, la proposta di conferimento della Medaglia d’Oro, sempre al Valor Militare, voluta personalmente dal Comandante Generale del Corpo[14]. Fu solo nel 1948, con D.P.R. in data 1° di dicembre, che alla memoria del giovane capo partigiano verrà concessa la Medaglia d’Argento al Valor Militare, in luogo della citata Medaglia d’Oro, e solo per un’azione specifica, anziché per tutto il ciclo operativo sostenuto dal capo partigiano, così come aveva proposto il Comando Generale del Corpo. Ad essa affidiamo la conclusione del saggio, ricordando che all’eroico ufficiale la Guardia di Finanza ha dedicato alcune caserme ed una nave-scuola, così come alcune Vie pubbliche gli sono state intitolate a San Benedetto del Tronto e a Garessio.

 

“Valoroso ufficiale reagiva con indignazione ad atti di crudeltà commessi da militari tedeschi in sosta in una stazione ferroviaria, costringendo con lancio di bombe a mano il convoglio nemico ad allontanarsi. Al comando di una banda di partigiani sosteneva per un intero ciclo operativo numerosi scontri con i nazifascisti distinguendosi per coraggio, ardimento e sprezzo del pericolo. Catturato dall’avversario veniva condotto al supplizio che seppe affrontare con fermezza al grido di Viva l’Italia. Zona Picena, settembre 1943 – aprile 1944”.

 

 *Capitano, Direttore del Museo Storico e Capo Sezione1454555 Ufficio Storico Guardia di Finanza.



[1] Giuliano Oliva, “La Guardia di Finanza nella Resistenza e per la Liberazione”, edizione Scuola di Polizia Tributaria – Roma, 1985.

[2] Dell’eroe piemontese ne tracciò ampia testimonianza Michele Poveromo nel suo poco noto libro “I Nostri Morti nella Guerra 1940 – 1945”, Tipografia Arti Grafiche Friulane – Udine, 1947, pagg. 139-141.

[3] Apparteneva alla famiglia anche il Generale Vincenzo Paolini, decorato della Croce dell’Ordine Militare di Savoia per il comportamento tenuto durante la recente campagna Italo-Etiopica.

[4] Archivio Museo Storico Guardia di Finanza (dora in poi AMSGF), Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”.

[5] AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”, “Dichiarazione dell’Aiutante di Battaglia mare Iovine Pietro e Finanziere Magro Antonio circa l’attività svolta dal Tenente Paolini Gianmaria”, rilasciata a Civitavecchia in data 7 aprile 1945, pag. 1.

[6] Ibidem, pagg. 1 e 2.

[7] Ricordiamo che in quel contesto storico (settembre 1943), il Sotto Tenente Carlo Alberto Dalla Chiesa era il Comandante della Tenenza dei CC. RR. di San Benedetto del Tronto, reparto che resse ancora per poche settimane, passando anche lui alla macchia, dopo essersi rifiutato di eseguire rastrellamenti al fianco dei nazi-fascisti, schierandosi così apertamente con la Resistenza.

[8] Ricordano lo Iovine ed il Magro che fu solo per l’intervento della moglie e dei figli piccoli del fascista che il Paolini, commosso dalla scena, decise di lasciare in vita il Roscioli, ottenendo da questi la promessa di non interessarsi più di politica. AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”, “Dichiarazione dell’Aiutante di Battaglia mare Iovine Pietro e Finanziere Magro Antonio circa l’attività svolta dal Tenente Paolini Gianmaria”, rilasciata a Civitavecchia in data 7 aprile 1945, pagg. 2 e 3.

[9] Località della Val Tiberina, a circa 66 km a nord di Perugia.

[10] AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”, nota n. 275 in data 20 aprile 1945 del Comando Generale del Corpo indirizzata al Comando Zona Speciale R. G- Finanza di Roma.

[11] Copie delle lettere del Cardini e del Vannucci sono conservate nel fascicolo dedicato al Paolini e di cui alla precedente nota.

[12] Lettera in data 14 marzo 1945, prot. n. 622 e lettera in data 5 aprile 1945, a firma del Segretario Generale del Movimento, Col. Dolfi. In AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”.

[13] Copia della proposta priva di data si trova in AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”.

[14] I contenuti della proposta sono racchiusi in un promemoria stilato dall’Ufficio del Generale Addetto al Comando Generale del Corpo in data 30 marzo 1946. In AMSGF, Fondo U.G.A., Sezione 675, f. 8, “Documentazione relativa al S.T. Paolini Gian Maria”.

 

 

Sentitamente ringraziamo il cap. Severino per questo sostanziale contributo alla conoscenza della nostra storia regionale e del concorso dei finazieri alla liberazione delle nostre terre. Lo ringraziamo ancor più perché con il suo impegno ci aiuta fattivamente a rendere questo sito un luogo dove la ricerca storica é elemento fondamentale e qualificante.

Lo ringraziamo insieme agli altri nostri collaboratori che anch'essi contribuiscono e con i quali auspichiamo una continuità in questo sforzo comune di presentare storie, sentimenti e ragioni che sono le radici del nostro Paese.  Grazie.

Armando Duranti

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